Regime impatriati: occorre la discontinuità lavorativa

Se al rientro in Italia, dopo anni di lavoro trascorsi all’estero, il dipendente mantiene comunque una continuità lavorativa presso la stessa società che lo aveva distaccato, il regime fiscale di favore per i cosiddetti “impatriati” non può aver luogo. Tale è il succo della risposta 683 del 7 ottobre con cui l’Agenzia delle Entrate ha esaminato il caso di un cittadino italiano, laureato e residente all’estero, assunto da una società X per essere distaccato all’estero fino al 2012, data in cui ha fatto rientro in Italia iscrivendosi, nel 2013, all’anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr). Dopodiché lo stesso cittadino ha lavorato per un’altra società Y che a sua volta lo ha distaccato all’estero nel 2016, anno in cui si è nuovamente iscritto all’Aire. Infine dal 2021 la stessa società Y che lo aveva distaccato gli ha proposto di rientrare definitivamente nel mercato italiano con un nuovo incarico direttivo. In base quindi a tali premesse il cittadino ha chiesto di conoscere se possa fruire del regime speciale per lavoratori impatriati nel periodo d’imposta 2021, anno in cui ha riacquisito la residenza fiscale in Italia, e per i quattro periodi d’imposta successivi.

L’Agenzia ha risposto di no. Anzitutto si ricorda che il “regime speciale per lavoratori impatriati”, introdotto dall’articolo 16, comma 2, del Dlgs 147/2015, prevede una detassazione, per cinque anni, dei redditi conseguiti dai soggetti laureati che:

  • trasferiscono la residenza in Italia;
  • non siano stati residenti in Italia nei due periodi d’imposta antecedenti al trasferimento durante i quali abbiano lavorato o studiato;
  • si impegnino a risiedere in Italia per almeno 2 anni, svolgano un lavoro in Italia.

Ora, con riferimento specifico ai contribuenti che rientrano a seguito di un distacco professionale all’estero – ed è appunto il caso del lavoratore che ha posto la domanda –, l’Agenzia ricorda che il beneficio decade se il rientro avviene in presenza dello stesso contratto o presso lo stesso datore di lavoro; viceversa, se l’attività lavorativa intrapresa al rientro costituisce di fatto una nuova realtà, cioè se il lavoratore sottoscrive un contratto del tutto nuovo, con un nuovo datore di lavoro, e se quindi assume un ruolo aziendale differente rispetto a quello originario, in tal caso gli sarà possibile accedere al beneficio. In parole povere, se il soggetto che fa ritorno in patria (come nel caso in esame), pur in presenza di un nuovo contratto per un nuovo ruolo aziendale, si ritrova in una situazione di sostanziale continuità rispetto al precedente lavoro in virtù di un accordo sottoscritto con la stessa società che lo aveva in precedenza distaccato, il regime fiscale agevolativo non può essere applicato.

L’Agenzia ricorda infine – sempre in virtù del principio della discontinuità professionale tra la situazione all’estero e quella italiana – che deve esserci un nesso causale ben definito tra il trasferimento della residenza fiscale in Italia e l’inizio della nuova attività lavorativa per la quale si vorrebbe ottenere l’applicazione del regime fiscale agevolato, requisito che nel caso dell’istante non sussiste, visto che il suo rientro in Italia alla data del 31 gennaio 2021 è avvenuto di conseguenza al termine naturale del periodo di distacco all’estero. Ciò, in pratica, non fa ravvisare quel suddetto requisito di “discontinuità lavorativa” essenziale per l’accesso al regime fiscale agevolativo. In buona sostanza, per dirla in termini più generici, il regime agevolativo degli impatriati è premiante per quei lavoratori che, rientrando in Italia, compiono un’effettiva “scelta di vita” a tutto tondo, abbandonando cioè il vecchio per il nuovo, mentre non si adatta a quei soggetti che, restando all’interno della stessa consolidata realtà aziendale, si trovino “semplicemente” a vivere un trasferimento logistico, sia pure tra l’estero e l’Italia e ai fini di uno scatto di carriera.

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